Una certa idea di mondo di Alessandro Baricco



Questo articolo è uscito sulla rivista Letteratu.

A metà degli anni novanta, avevo dieci anni o poco più, guardavo l'orizzonte, deludente linea piatta che finiva dove iniziava il cielo, e puntando il dito verso un punto indefinito dicevo che sarei andata a vivere lontano e se qualcuno pronunciava il nome di qualche paese della bassa padana oppure quello di Mantova, la città più vicina, rispondevo che sarei andata ancora più lontano. Così la gente pensava che ero proprio una bambina piena di sogni. Crescendo me ne sono andata, sempre più lontano. E a volte ho come la sensazione di non essere ancora giunta in quel punto che indicavo all'età di dieci anni. 

Tra un viaggio e l'altro, un trasloco e l'altro (che mi venga concessa la soddisfazione di affermare, col petto gonfio, che di traslochi me ne intendo) ho disseminato ricordi e lasciato tracce, ho seguito odori e percepito sensazioni che, altrimenti, non avrei mai provato. E in un momento della mia vita in cui mi ritrovo a fare i conti con un tempo che ho abbandonato solo a metà, leggere (anzi rileggere, se devo essere sincera) il prologo del romanzo (sì voglio chiamarlo proprio così) di Alessandro Baricco, Una certa idea di mondo, nel quale annota quello che ha lasciato e poi ritrovato in seguito a un trasferimento, non può che farmi sentire meno sola. Perchè in fondo è vero che tenere i libri nell'ordine secondo il quale sono stati aperti, come afferma Baricco, spinge a un rapporto intimo, talvolta morboso e carnale, con i libri stessi, che riposano nell'esatta posizione in cui li abbiamo lasciati, invitandoci ad annusarli di tanto in tanto. 

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